Dunque, l’uomo, non ha istinti o, comunque, non ne ha in misura adeguata a consentirgli la sopravvivenza. L’uomo è un animale carente e poco attrezzato biologicamente ma, proprio questa sua debolezza costitutiva, è una precondizione per lo sviluppo della sua enorme forza cognitiva. In questa ottica gli usi, i costumi e le diverse tradizioni culturali risultano essere una sorta di compensazione, di strumento sostitutivo nella eterna lotta per la sopravvivenza.
Il sapere e i suoi sedimenti, tramandati sia oralmente che in forma scritta, possono esser visti come ciò che resta degli esperimenti culturali riusciti e vincenti, il repertorio delle pratiche che si sono rivelate vincenti. Così, la tradizione, è il lascito che le generazioni precedenti donano ai propri discendenti, in modo che non debbano sempre ripartire da capo, nell’analisi di ciò che è opportuno fare o non fare in determinate circostanze.
Questo passaggio di consegne, tuttavia, non è lineare né indolore. Pensiamo alle crisi adolescenziali, alla irrefrenabile spinta a mettere in discussione i modelli passati per sondare la possibilità di aprire nuove strade. Questo è il prezzo che la lotta per la vita ci chiede di pagare per andare avanti, per sondare nuove possibilità, per non fermarci al già dato. Passammo dalla civiltà del rame a quella del bronzo, da quella del bronzo a quella del ferro e così via in una dialettica inesauribile tra vecchio e nuovo, fra trasmissione di cultura e innovazione, tradizione e rivoluzione. E ad ogni passo avanti corrispose e corrisponde un sedimentarsi delle nuove idee emerse e vincenti, dei nuovi apporti, in nuove tradizioni. Dunque, tornando alla tradizione, possiamo definirla come il repertorio delle pratiche riuscite, la memoria dei comportamenti risultati vantaggiosi.
La ritualità è il sedimento e la memoria delle cose vantaggiose mentre il divieto, il tabù, costituiscono il rifiuto delle cose che non funzionano, di ciò che è risultato dannoso alla conservazione dell’individuo o del gruppo.
Quando poi i riti, anziché agiti, vengono narrati, diventano miti e così, proprio ispirandosi ai miti, che funzionano come riduttori di angoscia, come manuali tascabili pronti per l’uso, si può essere rassicurati che in determinate situazioni, tenendo certi comportamenti, si potranno ottenere i risultati sperati.
Risulta così chiaro che i miti e ancor più le diverse ritualità, in questa ottica, si possono intendere come compensazioni culturali rispetto alla mancanza di un codice istintuale geneticamente inscritto nel nostro DNA che ci dica cosa fare e come farlo per ottenere i risultati attesi.
Così possiamo sapere come comportarci, anche senza un istinto che ci guidi, perché abbiamo la tradizione e il mito che vengono in nostro soccorso, non lasciandoci soli, di fronte alle scelte difficili e rischiose, che spesso la vita richiede, in balia del nostro libero arbitrio che, in assenza di una capacità noetica e intuitiva assoluta (possibile solo ad un intelletto divino), rischierebbe di paralizzarci nello sgomento che può suscitare la sensazione oceanica del possibile. La tradizione, dunque, può essere vista come il sedimento di una serie enorme di scelte precedenti e della selezione che, su di esse, ha svolto la forza discriminante del successo e dell’insuccesso.
Proprio grazie alle indicazioni di questo precipitato culturale possiamo muoverci secondo linee abbastanza garantite ed evitare, o comunque ridurre, l’esperienza paralizzante dell’angoscia.
In altri termini l’uomo compensa la sua carenza istintiva, con degli “istinti culturali”, con dei codici trasmessi che si chiamano riti, miti, pratiche religiose e sociali che determinano delle regolarità di comportamento da cui è lecito aspettarsi una regolarità di risposte. Il sapere umano nasce con la memoria, trasmessa linguisticamente e oralmente, di queste pratiche vantaggiose, che in qualche misura limitano la libertà a vantaggio della sicurezza e della prevedibilità degli accadimenti.
Questo passaggio di consegne, tuttavia, non è lineare né indolore. Pensiamo alle crisi adolescenziali, alla irrefrenabile spinta a mettere in discussione i modelli passati per sondare la possibilità di aprire nuove strade. Questo è il prezzo che la lotta per la vita ci chiede di pagare per andare avanti, per sondare nuove possibilità, per non fermarci al già dato. Passammo dalla civiltà del rame a quella del bronzo, da quella del bronzo a quella del ferro e così via in una dialettica inesauribile tra vecchio e nuovo, fra trasmissione di cultura e innovazione, tradizione e rivoluzione. E ad ogni passo avanti corrispose e corrisponde un sedimentarsi delle nuove idee emerse e vincenti, dei nuovi apporti, in nuove tradizioni. Dunque, tornando alla tradizione, possiamo definirla come il repertorio delle pratiche riuscite, la memoria dei comportamenti risultati vantaggiosi.
La ritualità è il sedimento e la memoria delle cose vantaggiose mentre il divieto, il tabù, costituiscono il rifiuto delle cose che non funzionano, di ciò che è risultato dannoso alla conservazione dell’individuo o del gruppo.
Quando poi i riti, anziché agiti, vengono narrati, diventano miti e così, proprio ispirandosi ai miti, che funzionano come riduttori di angoscia, come manuali tascabili pronti per l’uso, si può essere rassicurati che in determinate situazioni, tenendo certi comportamenti, si potranno ottenere i risultati sperati.
Risulta così chiaro che i miti e ancor più le diverse ritualità, in questa ottica, si possono intendere come compensazioni culturali rispetto alla mancanza di un codice istintuale geneticamente inscritto nel nostro DNA che ci dica cosa fare e come farlo per ottenere i risultati attesi.
Così possiamo sapere come comportarci, anche senza un istinto che ci guidi, perché abbiamo la tradizione e il mito che vengono in nostro soccorso, non lasciandoci soli, di fronte alle scelte difficili e rischiose, che spesso la vita richiede, in balia del nostro libero arbitrio che, in assenza di una capacità noetica e intuitiva assoluta (possibile solo ad un intelletto divino), rischierebbe di paralizzarci nello sgomento che può suscitare la sensazione oceanica del possibile. La tradizione, dunque, può essere vista come il sedimento di una serie enorme di scelte precedenti e della selezione che, su di esse, ha svolto la forza discriminante del successo e dell’insuccesso.
Proprio grazie alle indicazioni di questo precipitato culturale possiamo muoverci secondo linee abbastanza garantite ed evitare, o comunque ridurre, l’esperienza paralizzante dell’angoscia.
In altri termini l’uomo compensa la sua carenza istintiva, con degli “istinti culturali”, con dei codici trasmessi che si chiamano riti, miti, pratiche religiose e sociali che determinano delle regolarità di comportamento da cui è lecito aspettarsi una regolarità di risposte. Il sapere umano nasce con la memoria, trasmessa linguisticamente e oralmente, di queste pratiche vantaggiose, che in qualche misura limitano la libertà a vantaggio della sicurezza e della prevedibilità degli accadimenti.
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Tags: Tradizione, riti, miti