“Dio creò l’uomo e trovando che non era abbastanza solo, gli diede una compagna perché sentisse più acutamente la solitudine” P. Valéry (1871-1945) da Tel Quel 1943.
Perché ho deciso di citare Valéry, come introduzione alla stimolante proposta giuntami dall’amico Luca di aprire una riflessione sull’altra metà del cielo, sul femminile, che così intensamente attraversa la sua ricerca culturale ed estetica?
Perché per capirci dobbiamo innanzi tutto conoscerci. Uomini e donne si conoscono poco e l’uomo capisce assai poco di molti aspetti del femminile.
Intanto vorrei evitare ogni stucchevole retorica egualitaria tra uomini e donne e mostrare come la vera accettazione del femminile, sia da parte degli uomini e forse ancor più da parte delle donne debba in realtà passare attraverso una valorizzazione delle differenze che caratterizzano e rendono complesso e affascinante il rapporto tra l’universo maschile e quello femminile.
E vorrei non sottacere il fatto che noi uomini siamo affascinati dal femminile proprio per la sua enorme distanza, per le differenze che sovente ci fanno apparire vicendevolmente inconoscibili, incomprensibili, talvolta insondabili ma anche irresistibilmente adorabili.
Vorrei ricordare come nella donna si intreccino due soggettività, due percorsi di autorealizzazione che non solo risultano essere spesso in conflitto tra loro ma che noi uomini stentiamo enormemente a capire. Come dice Galimberti la donna è “funzionaria della specie” e la natura è sempre lì pronta a ricordarglielo mensilmente e le richieste della specie parlano potentemente in lei fino a giungere, ad una certa età, a farsi richiamo assordante; ma questo percorso, in molti casi, può confliggere con il legittimo desiderio di realizzarsi come essere umano nel lavoro, nella ricerca, nello studio.
Questo conflitto interiore abita la donna della era post-industriale e la rende, per certi aspetti, più complessa ed articolata dell’uomo.
Si può ipotizzare inoltre che la secolare funzione attribuitale, dalla natura e dalla cultura, della cura della prole, abbia distolto le donne dalla razionalità categorizzante, generalizzante, tipica dell’universo maschile e le abbia sospinte ad osservare con grande attenzione il particolare.
Infatti i bambini non si allevano con procedure universali ma particolarizzando le cure. Qualunque bambino, come ben sa ogni buona madre, ha i suoi bisogni unici, che in molti casi possono non valere per il fratello, non sono cioè universalizzabili. La donna è concretezza, attenzione al particolare, ella sa che ogni bambino, ogni figlio è diverso dall’altro e ha una cura e un rispetto quasi istintivo per le differenze.
La psiche della donna è meno algoritmica di quella maschile, e risulta essere più vicina alla dimensione intuitiva ed inconscia.
Anche in ambito sessuale le differenze sono molto profonde ma il discorso sarebbe lungo e non è questa la sede per parlarne.
Nella nostra evoluta civiltà occidentale, dopo un lungo percorso, stiamo finalmente capendo che queste difformità non sono e non debbono essere una giustificazione per una qualche discriminazione, lo abbiamo capito solo con grande fatica e dopo secoli di abusi, di discriminazioni e di sottomissione del femminile.
La civiltà occidentale, infatti, ha tenuto per secoli la donna in uno stato di totale subordinazione che si è espressa, innanzi tutto, nella distinzione, imposta alla donna, tra dimensione procreativa e dimensione sessuale, cioè negando alla donna il diritto di ricercare il piacere.
Quasi tutti i popoli antichi ritenevano che la donna dovesse essere del tutto soggetta all’uomo: la famiglia di tipo patriarcale, infatti, era caratteristica della società Persiana, Egizia, Greca e Romana. In queste società la distanza tra funzione procreativa e piacere, derivante dall’attività sessuale, era sottolineata con forza e ritenuta qualcosa di naturale.
La donna “morale” era quella dedita alla procreazione ed alla famiglia, le altre, le donne al “negativo” erano quelle cui era concessa la ricerca del piacere proprio e dell’uomo cui si dedicavano.
Sentiamo cosa ci dice al riguardo Demostene, il più grande tra gli oratori greci ed uno dei massimi di ogni tempo “Teniamo le etere per il nostro piacere, le concubine perché abbiano quotidianamente cura del nostro corpo, e le mogli perché generino figli legittimi e siano guardiane fedeli della nostra casa”.
Ai
fini legali la donna non era una persona e il dominio dell’uomo su di lei era
totale, equiparabile a quello sullo schiavo. Il padre poteva vendere la figlia
come schiava, se essa perdeva la verginità prima del matrimonio.
Solitamente, la condizione riservata alle donne, in una società, è un chiaro segnale del tenore di libertà di cui una società è capace e va di pari passo con il livello di evoluzione culturale e civile, ma non sempre e non in ogni epoca ciò è stato vero.
Infatti nella oligarchica Sparta la posizione della donna nella società risultava essere migliore che nella democratica Atene.
Senofonte nella “Costituzione degli spartani” ci racconta:“Licurgo (IX-VIII secolo) dispose che il vecchio marito potesse ammettere nell’intimità della propria casa un uomo di cui ammirasse le doti fisiche e morali, allo scopo di ottenere figli per mezzo suo.
Di contro, nel caso che non intendesse avere ulteriori rapporti con la propria moglie, ma che tuttavia provasse il desiderio di avere una bella prole, lo autorizzò a mettere gli occhi su una donna prolifica e nobile e a renderla madre dei propri figli, a patto di aver ottenuto il consenso del marito legittimo. Licurgo sancì molte concessioni del genere”.
Insomma, come si può notare, una prima forma di fecondazione eterologa!
A Sparta, come documenta Senofonte, le donne bevevano vino e non avevano alcuna restrizione né per quello che riguarda l’educazione né per le frequentazioni. Facevano ginnastica in compagnia dei maschi e venivano definite spregiativamente “fenomeridi”, che letteralmente significa esibitrici di cosce.
A differenza delle altre donne greche, che trascorrevano praticamente la vita nel gineceo delle loro case, le spartane venivano educate a vivere liberamente, all’aria aperta. Anche se sposate, non erano tenute a dedicarsi né ai lavori domestici, cui provvedevano le schiave, né alla crescita dei figli, affidata alle nutrici. Esse non godevano di diritti politici ma erano libere di dedicarsi al canto, alla danza e soprattutto agli esercizi ginnici, cui erano addestrate fin dalla più tenera età, in quanto si pensava che così facendo esse potessero crescere sane e robuste e quindi altrettanto sani e robusti sarebbero stati i loro figli.
A differenza delle ateniesi che portavano il pesante e opprimente chitone, le donne spartane vestivano con tuniche corte e potevano inoltre liberamente passeggiare e parlare con gli uomini.
Anche nell’antica Roma il ruolo della donna era completamente subordinato a quello maschile e ogni tentativo di emancipazione venne osteggiato da molti politici tra cui si può ricordare l’accanita opposizione di Catone.
In ogni caso il pater familias, marito o suocero, aveva sulle donne della casa un potere, manus, che per un’antica legge dei tempi di Romolo poteva comportare almeno in due casi la morte: quando la moglie veniva sorpresa in flagrante adulterio e quando si fosse appurato che aveva bevuto vino. Nella Roma antica l’adulterio era considerato reato solo se veniva commesso dalla donna e veniva punito in modo più severo di quanto avvenisse nella vicina Grecia. Eppure vi era un notevole permissivismo per le relazioni sessuali con prostitute: un rimedio che lo stesso Cicerone consigliava affinché i giovani non cercassero di “godersi le mogli degli altri”. |
Il concubinato, importato con alcune modifiche da Atene, divenne così un istituto tipicamente romano.
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