Ma nei suoi viaggi Luca (vedi il suo sito professionale: www.lucabracali.it) ha incontrato anche la violenza, la brutalità e le deturpazione del corpo femminile che nessun relativismo può convincerci ad accettare o a giustificare. Tra queste tragedie che ancora attraversano l’universo femminile dobbiamo ricordare l’infibulazione.
Il termine “infibulazione” deriva dal latino “fibula”, una spilla utilizzata per agganciare la toga romana. Definisce una procedura mutilativa nella quale la vagina è parzialmente chiusa approssimativamente all’altezza della metà delle grandi labbra attraverso una sutura.
Durante il processo di guarigione viene inserita nella vagina una scheggia di legno per poter permettere il passaggio dell’urina e del sangue mestruale. A seconda dei diversi costumi, la ferità viene cucita con un filo di seta o con delle spine d’acacia.
La prima notte di nozze la donna viene deinfibulata per consentire la penetrazione, e reinfibulata dopo ogni parto per ripristinare la situazione prematrimoniale.
Sebbene non sia richiesta dal Corano, l’infibulazione è però una pratica che si può riscontrare in paesi, in tutto o in parte, islamici (essenzialmente la parte meridionale dell’Egitto, Sudan, Somalia, Eritrea, Nigeria, Senegal, Guinea, Yemen, Iraq, Malesia, Indonesia), dove viene consigliata come sistema ritenuto utile a mantenere intatta l’illibatezza della donna.
In Somalia, una donna non infibulata viene considerata impura; pertanto, non riesce a trovare marito e rischia l’allontanamento dalla società.
Secondo uno studio di Aldo Morrone e di Alessandra Sannella, in Italia le donne infibulate sarebbero invece circa 30-35 000 (ovvero il dato più alto presente in Europa) e ci sarebbero ogni anno circa 2.000 o 3.000 bambine immigrate a rischio. Tali infibulazioni verrebbero perlopiù fatte a pagamento (senza anestesia) presso medici o anziani della comunità di appartenenza.
Nonostante tutto questo le donne continuano ad essere infibulate, a voler essere infibulate anche lontane dal paese d’origine e anche a voler fare infibulare illegalmente le figlie nei Paesi in cui sono emigrate.
Continua a perpetuarsi lo scambio fra persona e società: la donna perde uno dei propri diritti fondamentali per sentirsi accettata dal gruppo, riconosciuta degna di farne parte.
L’onore della famiglia in cambio dei propri diritti di essere umano.
Interessante e meritevole di riflessione la proposta avanzata da un medico somalo Omar Abdulcair, attualmente ginecologo all’Ospedale di Careggi che nel 2004 ha suggerito di effettuare sulle figlie delle donne somale che ne avessero fatto richiesta, una sorta di infibulazione simbolica, effettuando una puntura sulla clitoride, con anestesia locale, che causasse una innocua e non compromettente fuoriuscita di alcune gocce di sangue.
L’intenzione sarebbe quella di rispettare le usanze e la ritualità della cultura di provenienza conciliandole con il buon senso ed i diritti che in occidente si riconoscono alle donne.
Tale proposta ha suscitato accesi dibattiti ma in genere non è stata ritenuta accettabile dalla maggioranza delle forze politiche e delle organizzazioni femminili.
Infine vorrei ricordare che il 20 dicembre 2012, l’assemblea generale dell’Onu ha adottato la risoluzione di messa al bando universale delle mutilazioni genitali femminili, depositata dal gruppo dei Paesi africani e in seguito sponsorizzata dai due terzi degli stati membri delle Nazioni Unite.
Solo da un nuovo e sincero rispetto per “l’altra metà del cielo”, rispetto basato sul riconoscimento delle differenze e non sulla omologazione, può nascere una più vera e profonda conoscenza tra i due sessi che sola può aprirci verso quella trascendenza laica che chiamiamo amore, descritto in maniera immortale dalle sublimi parole di Platone: “...questa è la mia febbre, da sempre, confondermi, liquefarmi col mio amore, farmi uno da quei due che eravamo.”