Ricordare per vivere
Ricordare è certamente elemento costitutivo, essenziale della realtà umana. Perché? Parlare del ricordo rimanda inevitabilmente al problema del tempo che incalza, che scivola via veloce, che non si lascia afferrare nemmeno tra le strade di Rio dove Fabio ci conduce ricordando, con struggente malinconia, l’allegria.
Ma cos’è questo tempo che ci sospinge senza una meta, senza un perché?
Sant’Agostino rispondeva nel libro XI delle Confessioni: “Se non me lo chiedi lo so, ma se me lo chiedi non lo so più”. Lo so intuire ma non lo so definire, non ne afferro il mistero, non ne delimito il concetto.
Il mio presente è un punto infinitesimale, che proviene da ciò che non è più e si getta verso ciò che non è ancora. Ma quando io parlo di me, del mio esserci, ovviamente non parlo di quel piccolissimo punto. Siamo in realtà un punto enormemente dilatato, una sfera illuminata e ampliata dal ricordo, estesa dalle forme del passato che ci accompagnano, ci costituiscono e crescono al passare delle stagioni, come una cometa che corre verso il sole allungando la sua coda, nutrendosi delle scintille di luce che la seguono turbinando.
Che lo si ammetta: siamo felici solo nel ricordo, in un amore lontano, nei luoghi perfetti dell’infanzia, nella spensieratezza incosciente di un’estate ad Ipanema.
Ad esempio la madre, impronta originaria di ogni amore presente e futuro, segue affettuosa e amorevole Fabio, che nel ricordo si fa bambino e prova ancora il brivido emozionante e ambivalente del distacco:
“Che nitidi mattini quelli con la neve
Ed io undicenne che me ne andavo col battello delle sette
Alle scuole medie e ti salutavo a lungo
A riva, finché non divenivi un punto nero.”
Dopo la separazione siamo più liberi ma più soli, con quel lungo, interminabile saluto, che apre al mondo ma è al contempo promessa di ritorno e di un rinnovato abbraccio.
Momento banale quando fu vissuto, rimpianto immenso e luogo perfetto della memoria oggi nel ricordo che rende, quell’antica dissolvenza, emozionante e struggente.
Si ode, non detto, un pensiero dolcissimo: “Vorrei riabbracciarti adesso, mamma!”
Il mio presente non è dunque solo il presente puntiforme di cui abbiamo detto, ma è ad un tempo il presente dell’attesa, della speranza, dell’illusione, e il presente ovattato e caldo del ricordo, laddove coloriamo di rimpianto le vie, i volti, le risate con gli amici e quegli attimi irripetibili dove “Respiri subito il vento dell’oceano ed echi di mille suoni di samba”.
E qui piombiamo anche noi, come per magia, la magia della poesia, in quegli spazi lontani e non familiari, in quella perturbante estraneità di un mondo lontano che attrae e intimorisce, in quella estate ormai dissolta e persa nelle distese infinite del tempo dove i suoni, le voci, le musiche sono la colonna sonora di una solitudine che lo avvolge e ci avvolge facendoci vivere e sentire il possibile che ci sollecita, ci tenta nelle sue mille facce accattivanti e terrificanti.
Alcune parti del suo narrare hanno un sapore onirico e, come nel sogno, Fabio ci parla inconsciamente di sé parlando solo apparentemente di altro “... Le donne sembrano sorridere, con occhi pieni di saudade come se la vita trascorsa avesse il trepido sapore di un amore mai troppo consumato”.
Si, la vita non è forse mai troppo consumata e Fabio ci trasmette, in alcuni suoi versi, una inesaurita e inesauribile brama di futuro, una sete d’amore, di vita:
“Calma ragazzi!
Facciamo altre due corse.
La nostra prateria
È ancora lì
O verdeggiante tramonto…”
Bello e sano questo desiderio che sembra ergersi, sorgere nel tramonto lussureggiante della vita ma poi…Fabio ci sorprende e ritorna, malgrado tutto, nei suoi versi, una palpabile paura della dissolvenza nell’irrilevanza e nell’insensatezza, forse temendo di poter essere lui quel punto nero che si congeda dalla vita restando immobile all’orizzonte.
Dice:
“Le rughe del tempo
Stanno riposando
Sui davanzali
Delle nostre attese
come incudini
prima del fatidico
colpo di martello.”
Forse è proprio questo “horror vacui” che ci rimanda con forza ad un verso di Orazio caratterizzato da una incurabile oscurità “Pulvis et umbra sumus”.(Ode 7 del libro IV).
Tutto ciò lo spinge, lungo gli itinerari dei suoi racconti, ad aggrapparsi al suo passato cercando di recuperare nel presente, “hic et nunc”, quelle emozioni rese uniche dal ricordo, ancore di sensatezza e di pregnanza di cui sente un assoluto bisogno.
Ma questo recupero pesca memorie effimere, momenti dove la contingenza, la transitorietà dominano mettendo in vibrazione, all’unisono, l’anima di Fabio e del suo lettore.
E così vediamo come, proprio la rapida dissolvenza di ciò che fu, (Mentre parliamo, sarà fuggito avido il tempo. Odi di Orazio), finisca per rendere prezioso ogni istante: “Balli, ti senti saturo di vita, ma nello stesso istante ti pare che tutto sia godibile perché effimero”.
Si nell’effimero di una risata perduta nel vento, di una notte solitaria ai bordi dell’oceano, di un amore fatto di un solo incontro, si riesce a cogliere l’eccezionalità dell’attimo, l’antica ma inesauribile saggezza del “Carpe diem”, che ci invita ad assaporare e ad apprezzare la preziosità di ciò che la vita ci offre non malgrado la sua fugacità ma proprio per la sua fugacità.
Ma la fugacità ci eccita e ci intimorisce, perché evoca l’immensità e l’eternità del nulla che sembra attenderla per divorarla.
Tempo ed eternità, come sempre, si affrontano, si scontrano, e nel loro abbraccio ci seducono e ci atterriscono. Siamo così spinti a rivivere l’ebrezza e il brivido di annichilimento che ne scaturisce, domandandoci se davvero, come leggiamo nel Timeo, possa essere “Il tempo immagine mobile dell’eternità”.
E così Fabio, come in un addio composto e distaccato, ci dice: “Attraverso la strada, apro il portone, scompaio… mentre la nebbia avvolgente si posa sulle piante”.