Partendo dall’ipotesi forse improbabile ma non improponibile di un rapporto oggettuale privo di ambivalenze, quale colpa è documentabile nel lutto?
L’ambivalenza, probabilmente, non costituisce soltanto un connotato attuale di certe modalità affettive, ma un potenziale proprio di ogni affetto, in altre parole la disponibilità dei moti affettivi (anche “puri”) a convertirsi nel loro contrario. E proprio questa disponibilità viene confermata dalla parola “ambivalenza”. Essa infatti eredita dal termine VALIDUS i coesistenti significati di “forte, energico, impetuoso, violento”. Ma potendosi dare una sospensione dell’investimento, l’energia sembrerebbe convertibile nei due valori alternativi della produttività e della distruttività. A questo punto le cose sembrano potersi spiegare agevolmente perché nella prospettiva del pensiero magico arcaico, tipico dei processi inconsci, è possibile distinguere il segno di questa “valenza” affettiva, riconoscendola direttamente dagli effetti che opera sul reale. Allora, in questa logica, chi muore lo fa, nell’ottica dell'affettività sofferente dei propri cari, perché non sufficientemente amato, perché l’amore non è riuscito a proteggerlo e dunque non resta che riconoscersi dolorosamente colpevoli.
Anche per il melanconico sembra che avvenga qualcosa di simile. E infatti talora, un lutto non risolto, può scatenare una depressione, ma per lo più il depresso non sa con precisione quando e cosa sia andato perduto in lui.
Possiamo dire che nella depressione ciò che riguarda la perdita non è inesistente: è inconscio.
Mentre nel lutto il mondo si fa vuoto e insignificante, nella melanconia è il soggetto stesso che si è impoverito e svuotato. I già ricordati significati di MELAOS = nullo, vano, inutile, sono denotativi di questo stato.